di Guido Vaglio, curatore della mostra
«Il filo smaltato che molti anni dopo doveva diventare sangue del mio sangue»: così Primo Levi, nel testo inedito ritrovato in un quaderno e del quale questo stesso volume offre una parziale trascrizione. In questa frase così intensa egli allude al filo di rame smaltato, materiale di lavoro e di svago dapprima – quando lui era ancora un bambino – per suo padre Cesare, e più tardi per lui stesso, quando da adulto si trovò a lavorare in una fabbrica di vernici.
Nel corso degli anni il chimico delle vernici Primo Levi, direttore della Siva di Settimo Torinese, realizzò molte sculture con scarti di lavorazione del filo di rame smaltato, rilanciando un hobby già praticato da suo padre. Quelle figure, modellate in una materia che egli stesso definisce «sangue del mio sangue», sono state offerte al pubblico in gran numero per la prima volta in una mostra torinese, realizzata nel centenario della sua nascita e ora riproposta nella stimolante cornice dell’ex Centrale dell’Acqua di Milano. Quei lavori inducono a ripensare l’intero arco del suo percorso biografico e intellettuale.
Affermare e divulgare un’immagine di Primo Levi non appiattita su quella del testimone è stato un impegno primario del Centro Internazionale di studi Primo Levi di Torino fin dalla sua nascita. Anche questa mostra di figure tridimensionali è un’opportunità ulteriore per esplorare e conoscere la complessità e la ricchezza del personaggio Levi; usando le sue parole, per «entrare nel varco e dare uno sguardo all’ecosistema che alberga insospettato nelle mie viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe»[2]. Alcuni fra gli animali qui elencati, Levi li ha modellati con il filo di rame.
La mostra espone una selezione significativa dei lavori realizzati dallo scrittore torinese e sinora assai poco conosciuti. Erano infatti oggetti destinati agli scaffali di casa oppure a essere regalati agli amici. I manufatti non sono datati (risalgono indicativamente al periodo 1955/1975), né hanno titoli attribuiti dall’autore. Il materiale utilizzato è in massima parte il filo di rame: il suo lavoro di chimico specializzato nella smaltatura dei conduttori elettrici gli consentiva di disporre di scarti e materiali da saggio in quantità[3]. Ma la dimestichezza di Primo Levi con quel materiale ha origini anche più lontane: lo dimostra l’inedito testo Cu – il cui titolo consiste nel simbolo chimico del rame – che proprio durante la preparazione della mostra è stato ritrovato. In questo abbozzo di racconto, che se completato avrebbe con tutta probabilità trovato posto nella raccolta del 1975 Il sistema periodico, si descrive il magazzino del padre Cesare e, in particolare, i rocchetti di filo di rame «rutilante e sorprendentemente flessibile fra le dita» che in esso erano conservati. Si svela così un aspetto inedito e poco indagato di Primo Levi[4], una attività dal carattere intimo e domestico ma, al tempo stesso, una testimonianza materiale della sua formazione, del suo pensiero, delle sue passioni.
A commento delle figure si è scelto di proporre citazioni letterarie anziché puntuali didascalie. Sono parole tratte in massima parte dall’opera di Levi e, in qualche caso, da alcuni dei suoi autori prediletti. Agli oggetti, naturalmente, è riservato il ruolo di protagonisti: l’allestimento, ideato da Gianfranco Cavaglià con Annarita Bertorello, ha risolto con efficacia la sfida di esporre queste figure, fisiche e oniriche al tempo stesso. Una piccola selezione di documenti, immagini e oggetti rende evidente la quantità e la qualità delle suggestioni, delle passioni e delle sensibilità che sono state lo sfondo della loro realizzazione: l’appartenenza familiare, la formazione e il mestiere del chimico, una solida cultura letteraria classica, la passione per le lingue, le etimologie e i giochi di parole, il talento per la matematica, la fisica e le scienze naturali.
Raramente Primo Levi parla di arti figurative; nondimeno – anche per motivi familiari – il panorama artistico non gli era sconosciuto. Possiamo quindi immaginare suggestioni suscitate dalle sculture in filo metallico di Alexander Calder, da alcuni lavori di Bruno Munari (autore, nel 1958, della sovracoperta di Se questo è un uomo in edizione Einaudi), fino al Dürer del rinoceronte… E tuttavia, le sue figure non ambiscono a essere opere d’arte. Sono il prodotto di un’attività ludica, l’opera di un dilettante: e qui, termini quali “gioco” e “dilettante” vanno considerati nella pienezza del loro significato e della loro importanza, liberati da ogni sospetto di contenere un giudizio di minorità, di riferirsi a un’attività di second’ordine. Sono oggetti nei quali la precisione scientifica del particolare si accompagna e si alterna a un piglio più impressionista, ma alla piacevolezza delle figure si associa sempre una tecnica costruttiva raffinata: nodi, spirali, intrecci realizzati con perizia e precisione. Lo mostrano bene i particolari delle immagini abilmente realizzate per questa pubblicazione da Pino dell’Aquila; esse offrono una lettura dei lavori che va oltre la loro (apparente) semplicità.
La presenza delle figure in filo metallico nello studio dello scrittore torinese è stata rilevata, e variamente interpretata, da molti personaggi che ebbero occasione di incontrarlo per conversazioni e interviste; ne rimane traccia nei loro resoconti: «Pendono dal soffitto o sono appoggiate sopra gli scaffali le sue sculture in filo di rame: un gabbiano teso nel volo, una cupa testa di gufo, due mostri che impugnano una lancia»[5]; «tre bizzarre creature (un gufo, un pinguino e una farfalla), modellate con quello che sembra il filo di metallo delle grucce per appendere gli abiti, che se ne stanno appollaiate in cima a una libreria»[6]; «Attaccate alle pareti […] ci sono buffe figure composte con perizia dallo stesso Levi utilizzando filo di rame isolato […]. Una grande farfalla, un gufo, un piccolo coleottero, e in alto dietro la scrivania due dei pezzi più grossi: un uccello-guerriero armato di un ferro da calza e, come mi spiegò Levi quando gli dissi che non riuscivo a capire cosa l’altra figura rappresentasse, “un uomo che si suona il naso”»[7]; «rari involucri in forma di animali o di persone fatti da lui con filo di rame smaltato. Sono statue reticolari che si tengono sospese e sono gradevoli da guardare»[8].
«È permesso non essere sempre seri, ma qualche volta sì e qualche volta no? Secondo me è permesso, e io ne approfitto»[9]. L’immagine più comune di Primo Levi è naturalmente quella dello scrittore, e non di uno scrittore qualunque: lo scrittore-testimone che ha saputo portare alla parola in modo esemplare l’esperienza di Auschwitz, emblema pro toto della persecuzione, della deportazione, dello sterminio consumatosi nei campi nazisti. Un’immagine tanto forte e potente che rischia di far apparire incongrui lavori come quelli esposti: quasi che il gioco, l’ironia, la leggerezza apparissero “fuori luogo” in chi ha subìto e raccontato l’esperienza del Lager[10]. Levi ne è ben consapevole e affronta la questione a più riprese; lo fa, in particolare, dopo la pubblicazione di Storie naturali, la raccolta di racconti firmata con lo pseudonimo Damiano Malabaila. A un cronista de «Il Giorno» non nasconde di aver provato «un leggero senso di imbarazzo, forse anche di pudore nei riguardi di una certa parte dei lettori dei miei due libri precedenti», di chi gli diceva: «Come puoi scrivere di queste cose, tu che vieni da Auschwitz?»[11]. Anche queste considerazioni suggerirono la scelta dello pseudonimo, «per segnare un distacco, una differenziazione dall’autore di Se questo è un uomo»; tuttavia, Levi afferma di non sentire alcuna contraddizione fra i due temi: «onestamente non credo di aver tradito nulla e nessuno; credo anzi che non sia difficile ritrovare in alcuni dei racconti i segni del Lager». Racconti che «non sono storie di fantascienza, se per fantascienza si intende l’avvenirismo, la fantasia futuristica a buon mercato. Queste sono storie più possibili di tante altre», che «si svolgono ai margini della storia naturale»[12].
Queste considerazioni di Levi, benché riferite più direttamente alla scrittura, risultano utili anche nell’accostarsi alle sue creazioni di filo metallico: perché ci aiutano ad ampliare e arricchire la nostra percezione di un uomo e di un intellettuale ricco, complesso, sfaccettato e multiforme. Un personaggio che non finisce di stupirci e dal quale abbiamo ancora oggi (forse, soprattutto oggi) molto da apprendere.
Liberare Levi dall’immagine univoca di testimone della Shoah non significa, beninteso, mancare di attenzione e di considerazione per il suo straordinario ruolo di testimone, né ritenere, superficialmente, che l’esperienza del Lager possa essere considerata semplicemente “altro” e non informi di sé tutta la sua opera e la sua vita. Ne tratta con chiarezza, in questo stesso volume, il saggio di Fabio Levi, e non sta a me abbordare qui una questione che è ampia, complessa e discussa[13]. Non si può non ricordare, tuttavia, quanto spesso Primo Levi ebbe a definirsi anfibio, centauro, evocando la compresenza costante di una «altra metà di me stesso in cui mi capita di vivere»[14]; «doppio, ibrido, bifido. Sono italiano ed ebreo, chimico e scrittore, razionalista e poeta»[15]; «Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta, direbbe don Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura»[16].
Quelli che seguono non sono che appunti ed esempi limitati; ma, nell’accostarsi a queste sue figure in filo di rame, possono forse aiutare a mettere in luce e a tenere in conto almeno tre nuclei tematici principali – il gioco, il lavoro manuale, gli animali – che rivestono un ruolo di primaria importanza nella poetica leviana.
La passione per i giochi matematici, la curiosità senza confini («mi interessava tutto»), l’interesse per le lingue e le etimologie («ero un gramaticus») si manifestano precocemente in Levi, come racconta egli stesso[17]. Ma il piacere del gioco – inteso come esercizio dell’intelligenza – non lo abbandonerà: con il suo nuovo computer, che «non scrive soltanto ma disegna», confessa a Tullio Regge di divertirsi «in modo indecente», «come un bambino»[18]; né si esaurirà la sua curiosità onnivora: «Finché avrò vita, continuerò a meravigliarmi non solo delle uova, ma anche delle mosche, delle moschee, dei poliedri, dei granelli di polvere e dei ciottoli dei torrenti… non esiste oggetto che non desti meraviglia o curiosità, purché sia esaminato con l’occhio a fuoco e con sufficiente ingrandimento»[19].
Affascinato dalla struttura delle lingue, appassionato di etimologia, creatore di rebus, Levi fu anche inventore di palindromi, frasi reversibili che si possono leggere anche da destra a sinistra. Ettore, il personaggio di Calore vorticoso[20], dichiara il suo vizio, «quello di leggere a rovescio». È in questo racconto che si trova uno dei più originali palindromi leviani, la frase bilingue: IN ARTS IT IS REPOSE TO LIFE: È FILO TESO PER SITI STRANI. Certo, riflette Ettore/Levi, «guai se tutte le frasi reversibili fossero vere, fossero sentenze d’oracolo. Eppure… eppure, quando le leggi a rovescio, e il conto torna, c’è qualcosa in loro, qualcosa di magico, di rivelatorio»[21].
Allora, perché non adottare (per gioco, naturalmente) proprio questa frase reversibile come chiave per accostarsi al mondo delle sue figure? C’è l’arte come riposo e pausa, ci sono i fili e ci sono anche siti strani…
Il piacere di giocare con le parole, di inserire citazioni e parodie più o meno esplicite percorre tutta l’opera di Levi, fin dalle prime pagine scritte subito dopo la liberazione. Tra i moltissimi esempi possibili, valgano due soltanto, tratti da due componimenti tra loro distanti nel tempo. La poesia Un altro lunedì risale al gennaio 1946: qui è la Commedia dantesca, a lui ben nota, che Levi si diverte a parodiare:
così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedí mattina
Che intendere non può chi non la prova.[22]
Del 1982 è invece Alla Musa, parodia della composizione foscoliana di identico titolo. Una più matura sicurezza compositiva consente qui all’autoironia e al piacere della rima di esprimersi in piena libertà:
Vedi come sono ridotto,
Cotto, rotto, corrotto,
Dotto ma me ne fotto;
E mi sento qui sotto,
Qui dove mi germogliano le idee,
Un bernoccolo che non c’era prima,
Livido e indolenzito.
È difficile che contenga versi,
Piuttosto segatura e roba molle.[23]
«Ogni lavoro che incammino è come un primo amore»[24]: così Libertino Faussone, protagonista de La chiave a stella, l’opera alla quale Levi affida la propria affermazione dell’importanza del lavoro, dell’orgoglio per il lavoro ben fatto, della dignità e del piacere che il lavoro offre all’uomo. Purché sia un lavoro finalizzato, nobile, dunque l’opposto del lavoro schiavo, vessatorio e insensato che i prigionieri dovevano subire nei campi.
Ma il tema del lavoro – e del lavoro manuale in particolare, della «mano artefice»[25], del confronto fisico con la materia – ritorna infinite volte nelle parole di Levi: fin dall’evocazione del Meccano – significativamente definito «gioco-lavoro» – nel ricordo di un suo compagno di giochi dell’infanzia[26]. Imparare a fare una cosa è ben diverso dall’imparare una cosa, sostiene Levi: la materialità degli oggetti da lui creati è dunque esaltazione del lavoro libero e del confronto con la materia, «la grande antagonista dello Spirito»[27].
La manualità, l’importanza della mano, «organo nobile» che la scuola aveva ingiustamente trascurato[28], sono presenti in molteplici scritti: «Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. Se l’uomo è artefice, non eravamo uomini: lo sapevamo e ne soffrivamo»[29]. E ancora, ne La chiave a stella: «pensare con le mani e con tutto il corpo»; «Conoscevo bene, con le mani, l’incrudimento del rame»; la «mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, che ancora lo guida, stimola e tira»; o in Vizio di forma: «facendo le cose, te ne vengono in mente altre, a catena: spesso ho l’impressione di pensare più con le mani che col cervello»[30].
Sono le mani che insegnano a «conoscere la materia ed a tenerle testa»[31]: rivendicare la nobiltà della mano e, più in generale, della tecnica, è anche un modo per rifiutare – culturalmente, prima ancora che politicamente – i fondamenti dell’educazione fascista e l’imposizione del modello educativo del filosofo Giovanni Gentile, subìta negli anni di scuola. Non potrebbe essere più esplicito questo passo del racconto «Ferro»: «la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità»[32].
«Sarei stato un chimico»[33]: la decisione, netta e assai precoce, Levi la fa risalire ai suoi sedici anni, quando lesse l’opera L’architettura delle cose di Sir William Bragg. Comprendere la materia per comprendere il mondo, l’universo, se stessi. Ecco che dal racconto della prima esperienza in laboratorio, il comportamento dello zinco innesca riflessioni sorprendenti, un «elogio dell’impurezza che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita», dove, ancora una volta, la critica culturale e politica al fascismo si esprime apertamente: «Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale»; «L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di “La Difesa della Razza”, e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro»[34].
L’interesse, vivo e partecipe, di Primo Levi nei confronti del mondo naturale, e di quello animale in modo particolare, emerge chiaramente nelle figure da lui realizzate; gli animali sono largamente predominanti e, nella loro rappresentazione, l’attenzione per il dettaglio e la fedeltà scientifica al soggetto si coniugano alla ricerca espressiva. Ha scritto Levi: «Se potessi mi riempirei la casa di tutti gli animali possibili. Farei ogni sforzo non solo per osservarli, ma anche per entrare in comunicazione con loro»; lo farei, aggiunge, «per simpatia, e perché sono sicuro che ne trarrei uno straordinario arricchimento spirituale e una più compiuta visione del mondo. In mancanza di meglio, leggo con godimento e stupore sempre rinnovati molti libri vecchi e nuovi che parlano di animali, e mi pare di ricavarne un nutrimento vitale, indipendentemente dal loro valore letterario o scientifico»[35].
Anche questa passione zoologica è assai precoce; risale all’infanzia, ai mesi di villeggiatura, che Primo trascorreva con la madre in luoghi non lontani da Torino; quei periodi, messo da parte «l’abominio sadico dei Compiti per le Vacanze», sono soprattutto legati alla scoperta della natura, all’incontro diretto con animali diversi: un pipistrello, un grillotalpa, uccelli, libellule, formiche… Fino alla scoperta e all’allevamento dei girini, l’osservazione attenta della loro metamorfosi[36].
In tutta la sua produzione letteraria, gli animali sono protagonisti e ad essi sono dedicate pagine specifiche, dai primi racconti degli anni Sessanta, alle poesie, agli elzeviri e alle “interviste immaginarie” degli anni Ottanta. Queste ultime paiono essere il punto di raccordo tra due modi di accostarsi al mondo animale: quello scientifico-divulgativo e quello più libero ed evocativo che prevale in apologhi, racconti fantastici e poesie: una forma di espressione, quella poetica, che Levi ammette di frequentare poco, ma nella quale avverte che «sono concessi degli stilemi che la prosa non permette»; così ritornando, ancora una volta, al tema del “doppio”: «Io ho l’impressione precisa di secernere prosa e poesia con due ghiandole diverse. Per quello che scrivo in prosa rispondo di ogni parola, per quello che scrivo in poesia no»; la poesia appare come «vacanza da tutto: dallo scrivere in prosa, per esempio, o dal mio lavoro quotidiano in una industria»[37].
Levi ritorna assai spesso sulla nostra eredità animale («noi animali e noi piante, e noi specie umana»[38]): ha ben chiara la lezione darwiniana e al tempo stesso ammonisce a non voler sbrigativamente «cercare e trovare a tutti i costi l’animale nell’uomo»[39]; accoglie e ricorda – con ineccepibile correttezza scientifica – l’ammonimento degli etologi «a non attribuire agli animali meccanismi mentali umani, a non descriverli con linguaggio antropomorfo», ma non rinuncia a inserirsi nel solco della grande tradizione della favolistica antica e si sente libero di «attingere a piene mani in questo universo di metafore», «selva di iperboli prefabbricate»; precisando però che «attribuire agli animali […] sentimenti quali la gaiezza, la noia, la felicita, è ammissibile solo in sede poetica, altrimenti è arbitrario ed altamente fuorviante»[40].
Nasce così una straordinaria galleria di personaggi-animali: dal topo «presuntuoso, arrogante e bombastico […] loquace, concettoso, equestre»[41] che gli fa la predica dall’alto di uno scaffale (e nel quale è difficile non ritrovare l’eco del collodiano grillo parlante); al bue, reso pio suo malgrado, protagonista di una bellissima poesia che alla fulminante invettiva iniziale «“Pio bove un corno!”» fa seguire versi ironici e irriverenti, sino al feroce sarcasmo che il bue indirizza all’autore di quell’altra ben nota poesia (Il bove, di Carducci): «Pio sarà Lei, professore, […] che / Batte alle chiuse imposte coi ramicelli di fiori / In mancanza di meglio»[42]. E ancora il canguro Innaminka, ospite a disagio di una elegante cena in piedi di umani[43], il batterio che risponde alle domande «in diretta dal nostro intestino», protagonista di una delle interviste immaginarie[44]; e giraffe, gabbiani, talpe, rane, sanguisughe, tenie… In quel mondo animale da lui tanto amato, «si trovano tutti gli estremi. Ci sono animali enormi e minuscoli, estremamente forti ed estremamente deboli, audaci e fuggitivi, veloci e lenti, astuti e sciocchi, splendidi e orrendi: lo scrittore non ha che da scegliere»[45].
Non sarà difficile, da questo bestiario reale, compiere il passo che conduce all’invenzione o alla descrizione di creature immaginarie: il centauro, certamente, protagonista di uno dei racconti di Storie naturali e soggetto di una delle figure esposte; ma anche i vilmy, gli atoúla, con le loro femmine nacunu (forse «l’unica specie animale in cui il maschio e la femmina siano stati designati con nomi diversi»[46]) o la misteriosa e inquietante «bestia nel tempio»[47]. All’invenzione di animali fantastici è dedicato un testo specifico[48]: Levi ci ricorda che non solo è pressoché impossibile inventare un animale che possa «esistere fisiologicamente»; ma che anche inventare un animale «a capriccio», senza curarsi della sua possibilità effettiva di vivere, non è compito facile. Si finisce, inevitabilmente, con il prendere «tratti e membra di animali noti», come nel caso dei basilischi, a cui si ispira un’altra delle figure esposte. E ci richiama alle teorie che hanno dimostrato la fisica impossibilità di esistere di un centauro, risalendo fino all’antichità e a Lucrezio, autore da lui molto amato.
Ancora una volta quindi, il filo del discorso ci fa tornare dove si era partiti: Levi razionalista e poeta, Levi che pensa e agisce con la ragione e la fantasia.
Le citazioni – salvo diversa indicazione – provengono tutte dalle opere di Primo Levi; il numero di pagina fa riferimento alle Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 2016-2018, 3 voll. (indicato per brevità con Oc).
[1] «Argento», in Il sistema periodico [1975], in Oc, I, p. 1010.
[2] La ricerca delle radici. Antologia personale [1981], in Oc, II, p. 7.
[3]«Sono approdato all’industria delle vernici per puro caso. […] la nostra fabbrica, sin dai primi anni si è specializzata in produzione di smalti isolanti per conduttori elettrici in rame. […] di filo smaltato sono fatti gli animali che ci sono nel mio studio… Non credo di avere sprecato il mio tempo dirigendo una fabbrica. Ho acquistato altre esperienze preziose, che si sono addizionate e combinate con quelle di Auschwitz». Philip Roth, Conversazione a Torino con Primo Levi [1986], in Oc, III, p. 1090.
[4] A questi oggetti è stata recentemente dedicata una tesi di laurea per il corso in Beni Culturali – Dipartimento di studi Storici dell’Università degli studi di Torino: Sara Dell’Ava, Pensare con le mani. Le figure in filo di rame di Primo Levi, AA 2016/17.
[5]Giulio Nascimbeni, Levi: l’ora incerta della poesia [1984], in Oc, III, p. 468.
[6]Ian Thomson, Conversazione con Primo Levi [1986], in Oc, III, p. 713.
[7] Philip Roth, Conversazione a Torino con Primo Levi cit., p. 638. I personaggi ai quali Roth si riferisce sembrano in realtà trarre ispirazione diretta dalla figura di Ubu, la marionetta simbolista creata da Alfred Jarry.
[8]Roberto Vacca, Un western dalla Russia a Milano [1982], in Oc, III, p. 259.
[9] Giovanni Tesio, Credo che il mio destino profondo sia la spaccatura [1982], in Oc, III, p. 242.
[10]Vale la pena di ricordare quanto scrisse Massimo Mila, ricordando l’amico improvvisamente scomparso: «Parrà un’enormità, ma se mi chiedessero di definire con una sola parola lo scrittore, direi che era un umorista», in «La Stampa», 14 aprile 1987, poi in Scritti civili, a cura di Alberto Cavaglion, Einaudi, Torino 1995. Non è un caso che, tra i suoi autori prediletti, Levi riservi un posto preminente a Rabelais.
[11]L’ha ispirato un’insegna [1966], in Oc, III, pp. 20-21.
[12] Edoardo Fadini, Primo Levi si sente scrittore «dimezzato» [1966], in Oc, III, pp. 17-18; e ancora: «Quando questa mia funzione [di testimone] si è esaurita mi sono accorto di non poter insistere sul registro autobiografico, e insieme di essere stato troppo “segnato” per poter scivolare nella fantascienza ortodossa: mi è sembrato allora che un certo tipo di fantascienza potesse soddisfare il desiderio di esprimermi che ancora provavo, e si prestasse a una forma di moderna allegoria». Alfredo Barberis, Nasi storti [1972], in Oc, III, p. 50.
[13]Si veda ad esempio l’intervento di Alberto Cavaglion, Primo Levi era un centauro? al convegno Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi (Torino, dicembre 1999), pubblicato nel volume degli atti a cura di Enrico Mattioda (FrancoAngeli, Milano 2000).
[14] Edoardo Fadini, Primo Levi si sente scrittore «dimezzato» cit., p. 18.
[15] Giorgio Martellini, Io sono un centauro [1984], in Oc, III, p. 454.
[16] Giovanni Tesio, Credo che il mio destino profondo sia la spaccatura cit., p. 241.
[17] Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio [1987], in Oc, III, pp. 1018 e 1029.
[18] «Mi diverto in modo indecente a creare sul piccolo schermo forme che mi sembrano belle e nuove, molto al di sopra della mia capacità manuale; e poi le posso “mettere in memoria” e stampare. È talmente affascinante che ci perdo molte ore: invece di scrivere gioco, e mi diverto come un bambino». Primo Levi e Tullio Regge, Dialogo [1984], in Oc, III, p. 513.
[19] Inedito citato da Ernesto Ferrero, nell’introduzione a Primo Levi, Ranocchi sulla luna, Einaudi, Torino, 2014, p. XVI.
[20]Calore vorticoso, in Lilìt e altri racconti [1981], in Oc, II, p. 320. Dei giochi linguistici di Primo Levi tratta diffusamente Stefano Bartezzaghi, in particolare in Una telefonata con Primo Levi, Torino, Einaudi 2012.
[21] Calore vorticoso cit., p. 320.
[22] Un altro lunedì [1946], in Ad ora incerta, in Oc, II, p. 688.
[23] Alla Musa [1982], in Ad ora incerta cit., p. 771.
[24] La chiave a stella, Oc I, p. 1066.
[25] La chiave a stella, Oc I, p. 1160.
[26] «Il fondamento della mia amicizia con Carlo era il Meccano: non avevamo altro in comune, ma questo gioco-lavoro ci legava insieme per molte ore del giorno». Meccano d’amore, in Racconti e saggi [1986], in Oc, II, p. 1045.
[27] «Zinco», in Il sistema periodico cit., p. 884.
[28] Primo Levi e Tullio Regge, Dialogo cit., p. 487; e ancora, nella stessa conversazione con Regge, a p. 511: «L’analisi manuale, come tutti i lavori manuali, ha un suo valore formativo, è troppo simile alle nostre origini di mammiferi per essere trascurata».
[29]«Idrogeno», in Il sistema periodico cit., p. 877.
[30] (“Il fabbro di se stesso”, Vizio di Forma, Oc I, p. 819).
[31] (La chiave a stella cit., p. 1075)
[32] «Ferro», in Il sistema periodico cit., p. 891.
[34]«Zinco», in Il sistema periodico cit., p. 886.
[35]Romanzi dettati dai grilli, in L’altrui mestiere [1985], in Oc, II, p. 852.
[36]Ranocchi sulla luna, in Racconti e saggi cit., p. 1051.
[37] Antonio Audino, «Io un poeta? Scrivo soltanto per gioco» [1984], in Oc, III, p. 474.
[38] «Carbonio», in Il sistema periodico cit., p. 1029.
[39] Questa e le citazioni che seguono sono tratte da Romanzi dettati dai grilli, in L’altrui mestiere cit., p. 851 sgg.
[40]«Le più liete creature del mondo», in L’altrui mestiere cit., p. 852.
[41] Un topo, in Ad ora incerta cit., p. 730
[42] L’allusione è alla poesia Ad Annie, dedicata da Carducci ad Annie Vivanti, la giovane scrittrice oggetto di un ardente amore senile da parte del poeta romagnolo.
[43]Cena in piedi [1977], in Pagine sparse 1947-1987, in Oc, II, p. 1398.
[44]In diretta dal nostro intestino: l’Escherichia coli [1987], in Pagine sparse 1947-1987 cit., p. 1670.
[45] «Romanzi dettati dai grilli», in L’altrui mestiere cit., p. 852)
[46] I figli del vento, in Lilít e altri racconti, in Oc, II, p. 335.
[47] La bestia nel tempio, in Lilít e altri racconti cit., p. 309.
[48]Inventare un animale, in L’altrui mestiere cit., p. 871.