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Primo Levi

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L’ancipite Levi

di Francesco Memo

 

Ancipite è una parola rara. Di origine latina – da “anceps”, composto di “am(bi)” «da due parti» e “caput” «capo» – indica la doppia natura propria di un animale con due teste. Come il rarissimo Tira-molla, che il Dottor Dolittle riceve in dono dalle scimmie nel capolavoro di Huge Lofting. Senza coda, il Tira-molla (Pushmi-Pullyu in originale) presenta a ciascuna estremità del corpo una testa dotata di corna appuntite. È una creatura timida e difficilissima da cacciare. Gli uomini sorprendono la maggior parte degli animali strisciando di nascosto alle loro spalle, ma con il Tira-molla questa strategia è del tutto inefficace. Da qualsiasi parte si arrivi, l’animale ancipite è sempre in grado di guardarti in faccia. La difficoltà di cattura spiega perchè nessuno zoo, o museo di storia naturale, possa vantarne un esemplare nella propria collezione. In più il Tira-molla dorme solo una metà alla volta: una delle sue due teste è sempre sveglia e allerta. Come i delfini, che riposano con metà cervello, e un occhio aperto e l’altro chiuso dormono nuotando, spesso in sincrono con un compagno.

 

Chissà se Primo Levi conosceva le avventure di Dolittle. Di certo non gli sarebbe dispiaciuto poter apprendere l’incredibile facoltà del dottore inglese, che consente di parlar da pari con gli animali. In alcuni racconti ha persino esplorato questa possibilità: in Pieno impiego, ad esempio, il protagonista scopre come comunicare con gli insetti e li usa per svolgere dei compiti, mentre in L’amico dell’uomo un assiriologo riesce a decifrare la stele di Rosetta della tenia, per scoprire che nelle cellule epiteliali del verme solitario si nasconde una vera e propria letteratura.

In più occasioni Levi si è divertito a dare voce letteraria ad animali non umani, intessendo un dialogo diretto con loro e proponendo un proficuo e spesso spiazzante confronto di punti di vista. Anzi si può dire che gli animali, come ha notato per primo Marco Belpoliti, siano una componente essenziale e irrinunciabile della sua opera.

 

Limitandosi alle sole poesie troviamo la talpa che rivendica la propria vita solitaria e buia, il ragno (femmina) dalla pazienza lunga e la mente corta, il topo arrogante e bombastico che cita Franklin per rammentare che il tempo è denaro, l’elefante della schiera di Annibale che grida, o meglio barrisce, l’assurdità della Storia, che lo porta a morire tra le nevi delle Alpi. Fino ad arrivare ad una delle poesie più belle di Levi, Meleagrina, dedicata all’ostrica dell’Oceano Indiano “condannata a secernere secernere/ Lacrime sperma madreperla e perla./ Come te, se una scheggia mi ferisce il mantello,/ Giorno su giorno la rivesto in silenzio.”

E non vanno trascurate le incredibili interviste immaginarie, nelle quali lo scrittore si mette addirittura nei panni di un batterio escherichia coli. “Abbia pazienza un momento”, dice ad un certo punto l’abitante del nostro intestino, “sono in mitosi, voglio dire che mi sto sdoppiando: ma è una faccenda di pochi minuti, poi una delle mie metà sarà di nuovo a sua disposizione.”

 

L’interesse di Levi per la biologia e l’etologia non si esaurisce comunque nel dialogo con animali reali. “Inventare dal nulla un animale che possa esistere (intendendo dire che possa esistere fisiologicamente, crescere, nutrirsi, resistere all’ambiente ed ai predatori, riprodursi) è un compito pressoché impossibile”. A confronto con l’inesauribile ricchezza di soluzioni innovative e sorprendenti squadernata dall’evoluzione, i tentativi dell’uomo di dare corpo ad animali immaginari risultano inevitabilmente difettosi e poveri. Eppure Levi non sfugge a questo richiamo demiurgico, punteggiando i suoi racconti di creature inesistenti, descritte meticolosamente (e ironicamente) con piglio da naturalista.

 

Basti pensare al Vilmy, al centro di uno suoi più riusciti racconti “fanta-biologici” (la definizione è di Italo Calvino). Un animale enigmatico e seducente, dalle movenze feline e il lucido pelame, che nasconde un segreto assai ricercato dagli umani. Il Vilmy è infatti in grado di secernere (si noti bene, senza bisogno di esser fecondato, caso unico tra i mammiferi) un latte che avviluppa chi lo assaggia in un infinito struggimento, un desiderio senza fondo e soddisfazione. Dietro a questa dipendenza c’è una limpida ragione chimica – il latte di Vilmy presenta un’alta concentrazione di N-feniltocina, la sostanza che stimola nei neonati la fissazione affettiva – che spiega, ma non esaurisce, la natura inquietante di questo legame.

 

Un altro esempio emblematico è il finto rapporto scientifico sugli atoùla e le nacunu (I figli del vento), una singolarissima specie di roditori della Polinesia in cui il maschio e la femmina vengono designati con nomi diversi. Una bizzarria linguistica che trova spiegazione in un carattere unico tra i mammiferi (un’altra volta!): il loro netto dimorfismo sessuale. Le femmine di atoùla sono lunghe e robuste e portano una vistosa livrea di pelo lucido, solcata da quattro striature fulve, che si congiungono in prossimità della coda. I maschi  non superano invece il mezzo metro e pesano dai cinque agli otto chili (notare la precisione statistica), e presentano coda tozza e ventre glabro. Poiché nulla è lasciato alla fantasia capricciosa del demiurgo, questa mancanza di peli ha dietro una precisa ragione evolutiva. Tra atoùla e nacunu non esiste infatti accoppiamento e copula: la singolarissima strategia riproduttiva, come nota senza alcuna malizia l’estensore del rapporto, consiste in una disseminazione a distanza. È il vento a trasportare per evaporazione lo spermio dei maschi – simile ai granelli dei pollini delle piante – e raggiunge così le femmine, che in preda ad una inquieta danza si lasciano avvolgere dall’invisibile pioggia fecondatrice.

 

La stessa meticolosità naturalistica nel descrivere animali inesistenti la troviamo anche nel dottor Dolittle, quando Huge Lofting si pone il problema di spiegare come le scimmie riescano infine ad acchiappare l’incatturabile creatura ancipite, dalla quale siamo partiti. Avvicinatesi nell’erba alta, le scimmie formano un grande cerchio intorno al Tira-molla, chiudendogli tutte le via di fuga. Una soluzione di eleganza evoluzionistica: le scimmie usano l’arma della cooperazione sociale per fregare il rarissimo animale a due teste.

 

Ancipte: in Levi si trovano almeno due occorrenze di questa parola rara. La prima è un uso simbolico, in un passo significativo del Sistema periodico. All’inizio del racconto Nichel, dedicato al suo primo lavoro di chimico in un laboratorio annesso ad una miniera, Levi definisce la propria laurea un “documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno”. L’innocua ed elegante pergamena che conferisce a Primo Levi, di razza ebraica, la laurea in Chimica col massimo dei voti è un essere misterioso e incomprensibile. Ancipite, nel senso di intrinsecamente contraddittorio: un capo sembra accogliere e riconoscere, come un’assoluzione, l’altro invece separa e mistifica, e crudelmente condanna alla persecuzione razziale, e quindi al vortice della distruzione e del Lager.

Lo stesso aggettivo lo ritroviamo nella poesia dedicata ad un altro mollusco, terricolo questa volta, e a tutti familiare: la chiocciola. Si tratta di un animale ermafrodita insufficiente; possiede cioè sia l’apparato riproduttore maschile sia quello femminile, ma non è in grado di autofecondarsi (da qui l’insufficienza). Durante l’accoppiamento i due individui fecondano e rimangono fecondati contemporaneamente. Per cogliere questa doppia natura sessuale, che permette alla chiocciola di essere sempre compatibile con il consimile, Levi scrive un bellissimo verso, tutto giocato sulla combinazione reiterata degli stessi suoni fonetici.

 

Ecco ha trovato il compagno-compagna,

Ed assapora trepida

Tesa e pulsante fuori del suo guscio

Timidi incanti di ancipiti amori.

 

Ancipite significa doppio, persino opposto, ma non scisso. In altre parole, l’essere è unico non univoco. Coerentemente, nell’universo di Levi non esistono mostri, creature aberranti ad una dimensione, che proprio per la loro univocità si collocano fuori, e quindi lacerano, l’ordito naturale e della Storia. Come ci ammonisce in conclusione del suo ultimo libro-testamento, persino gli aguzzini che operano nell’abisso amorale del Lager non possono essere liquidati come mostri:

 

“Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso insistentemente quanto più quel tempo si allontana chi erano, come erano fatti i nostri” aguzzini”. Il termine allude ai nostri ex custodi, alle S.S. e, a mio parere, è improprio. Fa pensare ad individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.”

 

A forzare un po’ la mano, ma in fondo neanche troppo, possiamo dire che è Levi stesso ad avere una natura ancipite. È così che lo coglie Peppe Sini in un acuto ritratto scritto su A-rivista anarchica a pochi mesi dal suicidio. Creatura ancipite, testimone veritiero e profondo di situazioni scisse, nonché felice creatore di figure poetiche lacerate. “Di questa condizione degli uomini scissa, anfibia” – argomenta Sini – “Levi è testimone e poeta grandissimo. Perché in sé l’ha vissuta intensamente per molteplici scomposizioni e crisi, infinite catene di contraddizioni e dialettiche: perché tecnico e poeta, scienziato e scrittore, manipolatore di elementi chimici e di elementi linguistici, perché testimone di una condizione di totale alterità dall’umano, testimone del lager [..], perché perseguitato razziale.”

 

Potremmo aggiungere altre apparenti antinomie alla lista di Sini: il Levi razionale e il Levi che secerne, quasi suo malgrado, materia poetica; il Levi illuminista ma anche il Levi attratto dall’imbrunire, dai confini incerti, i vizi di forma, le ore incerte; il Levi severo moralista e il Levi fulminante parodista. E se tutti conosciamo il Levi apollineo, dobbiamo riconoscere che esiste anche un Levi dionisiaco, il quale non si manifesta tanto nei romanzi, ad eccezione forse di Se non ora quando, ma che, come abbiamo visto, trova piena cittadinanza nei racconti. È qui che sentiamo soffiare un desiderio panico di amore e fecondità primigenia, delirante e furibonda, che infonde vita alle sue innumerevoli creature.

 

Per rendersi conto una volta di più della sua irriducibilità a qualsiasi incasellamento e cogliere la profonda simpatia con cui guardava al mondo animale, è possibile ora visitare la mostra Primo Levi Figure, allestita alla Centrale dell’Acqua di Milano fino ad aprile. Una selezione delle sculture al filo di rame che lo scrittore ha intrecciato nel corso della sua esistenza. Dei lari inquieti, potremmo definirli, dato che Levi li teneva in casa, abitanti di librerie, mobili, o appesi alle pareti. Incredibilmente aderenti all’anatomia e alla fisiologia degli animali ritratti, ma con un qualche particolare che sfugge al realismo come un vizio di forma, sono figure tridimensionali impastate nel vuoto grazie ad un sottile strato di metallo. Alla rapidità del movimento, simile a schizzi a carboncino, affiancano una meticolosa cura progettuale, e l’indubbia capacità di manipolazione e controlle della materia propria del chimico artista. Si può ammirare anche un magnifico Centauro, figura doppia per eccellenza, al quale Levi si è esplicitamente accostato in interviste e scritti e al quale ha dedicato forse il suo racconto più bello, Quaestio de Centauris, che tutti dovrebbe leggere almeno una volta nella vita.

 

Hugh Lofting, Le avventure del dottor Dolittle, Feltrinelli Kids (2020)

Le poesie e i racconti di Primo Levi sugli animali sono raccolti in Primo Levi, Ranocchi sulla luna e altri animali, a cura di Ernesto Ferrero, Einaudi (2014).

Sulla visione etologica di Levi si veda Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda (2015) e la prefazione di Ferrero al volume citato.

Peppe Sini, Primo: ricordare in A rivista anarchica,  anno 17 nr. 148, estate 1987

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